Scuola: “meritocrazia”, autonomia differenziata, Pnrr… Ne parliamo con Giovanna Lo Presti, insegnante e coordinatrice del gruppo Scuola e università del Flna.

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Incontriamo Giovanna Lo Presti, coordinatrice del gruppo di lavoro scuola e università del Fronte di Lotta No Austerity, per parlare della situazione della scuola pubblica italiana, delle politiche dell’attuale governo, del quadro sindacale.

Giovanna, il ministro Valditara ha iniziato il suo incarico di ministro elogiando la meritocrazia. Che cosa significa «meritocrazia» nella scuola pubblica italiana?

“Meritocrazia” non è altro che una parola-slogan. Tutti dovrebbero essere d’accordo sul fatto che il merito venga premiato – e, in realtà, in una società in cui ragionare con la propria testa è sempre meno di moda, quasi tutti sono d’accordo sul fatto che il merito venga premiato e non si soffermano su cosa si debba intendere per “merito”. Basterebbe pensare che alfiere del merito fu Maria Stella Gelmini per respingere al mittente qualsiasi visione meritocratica. La Gelmini fece allora riferimento ad un saggio che (2008) era appena stato pubblicato in Italia, Meritocrazia, di Roger Abravanel, un manager di successo. Ma come comincia la sua carriera Gelmini? Dando l’esame di Stato per l’avvocatura a Reggio Calabria (percentuale di promossi: 90%) anziché nella nativa Brescia (percentuale di promossi: 30%)! Nel 2000, presidente del consiglio del comune di Desenzano del Garda, viene sfiduciata. Questi “meriti” la porteranno, nel 2008, a diventare ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Lo stesso tipo di “merito” fa sì che analfabeti conclamati assurgano alle più alte cariche dello Stato: per esempio, Fontana, nonostante scriva “inpiegato” con la “n” (come testimoniato da suoi testi autografi) è diventato Presidente della Camera. Insomma, la foglia di fico del merito serve ai nostri politici cialtroni per giustificare il loro stato di privilegio. Non dimentichiamoci di un altro aspetto: la natura classista della nostra scuola. Mi pare banale far notare che il “merito”, qualora valesse la pena, lo si dovrebbe misurare collocati sulla stessa ideale linea di partenza. Se ci spiegano come annullare all’interno della scuola gli svantaggi sociali, culturali, economici che segnano ogni studente allora potremmo, forse, parlare di merito. Ed anche in quel caso il merito sarebbe una misura soggettiva ed individuale. C’è chi, per saltare un’asticella posta ad un metro, fa uno sforzo enorme e chi invece salta con facilità e senza particolari allenamenti un metro e mezzo. Chi dei due è più meritevole? Devo premiare lo sforzo o il talento? Soltanto in una società della chiacchiera, in un mondo in cui riflettere è un’attività antiquata si può parlare a cuor leggero di “merito”. I continui appelli alla nostra Carta Costituzionale sono anch’essi in malafede. L’Italia del secondo dopoguerra era un Paese molto povero: scrivere allora che i “capaci e meritevoli” debbono avere la possibilità di accedere anche ai più alti gradi di studi significava mettere in campo un problema sociale di cui lo Stato, almeno teoricamente, avrebbe dovuto farsi carico. E significava anche vedere nella scuola un fattore necessario di promozione sociale e di miglioramento del Paese nel suo complesso. Altro che attenzione ai “talenti”, alle “eccellenze”! Comunque, Valditara ha dimostrato più volte di avere una visione della scuola molto superficiale: in questo ambito si inserisce anche lo sbandieramento del “merito”, parola allettante sino a quando non si comincia a chiedersi di che razza di merito si stia parlando.

L’autonomia differenziata è un altro dei cavalli di battaglia del governo Meloni (ma anche di alcuni settori dell’opposizione parlamentare: pensiamo alla pre-intesa firmata dal governatore dell’Emilia Romagna, Bonaccini). In che cosa consiste questo progetto? Quanto è pericoloso?

L’autonomia differenziata, che fa riferimento all’art. 116 della Costituzione, consiste, per quello che ci interessa in questa sede, nell’attribuzione a una regione a statuto ordinario, su richiesta della regione stessa, di autonomia legislativa rispetto alle cosiddette materie a legislazione concorrente (23 in tutto) . Mi limito ad elencarle: rapporti internazionali e con l’Unione europea, il commercio con l’estero, la tutela e sicurezza del lavoro, l’istruzione, le professioni, la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile, il governo del territorio, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la comunicazione, l’energia, la previdenza complementare e integrativa, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la cultura e l’ambiente, le casse di risparmio e gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Le regioni inoltre, secondo questo progetto, possono anche trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive.

Il disegno è complesso, l’artefice è quel Calderoli che ha già regalato al Paese una legge elettorale definita “porcata” dal suo stesso autore. Ma questa sarà, se arriverà ad effetto, una porcata molto più grande. Il punto di approdo che si intravvede è semplice da definire: le regioni più ricche saranno ancora più ricche e le più povere si impoveriranno ulteriormente. Su due aspetti importantissimi la sanità e la scuola, l’autonomia differenziata aumenterà i divari, che già oggi sonno un evidente problema del nostro Paese. Guardiamo ai dati relativi alla dispersione scolastica: secondo l’ultimo rapporto di Save the children, a fronte di una media nazionale del 12,7%, la Sicilia raggiunge il 21,1% e la Puglia il 17,6%, mentre in Lombardia è all’11,3%. Diciamo che sinora la regionalizzazione non ha prodotto buoni risultati: si pensi alla gestione disastrosa dell’emergenza pandemica. L’autonomia differenziata non potrà che accentuare tali problemi, poiché quello di cui c’è bisogno non è l’autonomia regionale ma una buona distribuzione e una limpida gestione delle risorse dello Stato.

Parliamo del Pnrr. In tanti (direzioni sindacali in primis) hanno seminato illusioni su questi fantomatici fondi. Come stanno davvero le cose?

Su questo aspetto rimando a qualcosa che ho scritto e qui mi esprimo sinteticamente. I fondi del PNRR per quel che concerne la scuola toccano vari aspetti. I principali sono due: edilizia scolastica e “scuola 4.0”. Partiamo dall’edilizia scolastica : la Fondazione Agnelli aveva stimato nel 2019 in 200 miliardi di euro la cifra necessaria per rimettere in sesto la disastrata edilizia scolastica del nostro Paese. E il PNRR? In realtà, la parte del PNRR che riguarda l’edilizia scolastica destina 3,9 miliardi al piano di messa in sicurezza delle scuole; poca cosa, se confrontati con i 200 miliardi di cui sopra. Aggiungiamo che il PNRR prevede la costruzione di nuove scuole per un investimento di poco più di un miliardo; a maggio 2022, erano previste 216 scuole “innovative”, che “fanno vetrina”, mentre gli interventi di messa in sicurezza, necessari e non appariscenti, servono poco per far pubblicità. Sulla scuola 4.0 il discorso è abbastanza lungo. Alla base c’è l’illusione tecnocratica, la falsa speranza che “innovando” ed usando strumenti tecnologici si possa rimediare alla crisi educativa in atto. Ma questa non è che la facciata; in realtà si sta assistendo ad un consistente spostamento di denaro. I fondi del PNRR servono per l’acquisto di materiale tecnologico e di “ambienti innovativi” per l’apprendimento. Gli uni e gli altri non serviranno a diminuire il numero di studenti per classe, ad aumentare il personale docente e ATA, a promuovere una riflessione molto seria sul senso della scuola – tre elementi di cui ci sarebbe urgente bisogno. Ed inoltre, tra pochi anni, saranno dispositivi obsoleti. Un segnale positivo ci arriva da alcune scuole (ricordo l’”Albertelli” di Roma) che hanno avuto la forza di rimandare al mittente le varie centinaia di migliaia di euro, che sarebbero stati spesi male e che avremmo dovuto pagare noi, in quanto contribuenti.

Valditara non ha condannato l’attacco squadrista avvenuto davanti al liceo Michelangiolo di Firenze. Ha invece criticato la dirigente scolastica per un’innocua circolare in cui stigmatizzava il fatto. Come giudichi questo fatto?

Naturale; Valditara è un uomo di destra, non si intende di problemi scolastici e si atteggia, quando getta la maschera, per quello che è – un reazionario, che non capendo nulla di scuola non è nemmeno in grado di apprezzare il tono della lettera della preside fiorentina: un tono, una volta tanto, per nulla retorico e per nulla ex cathedra. Il tono dell’adulto che parla con persone più giovani e che vuole ragionare con loro.

Infine: com’è la situazione sindacale – e di conseguenza lo stato della mobilitazione – nell’ambito dei lavoratori della scuola? La Francia è vicina o lontana?

Oggi vedo la Francia lontanissima; non vedo persone che come Mélenchon (non ne giudico la posizione politica) maledicano i governanti che ci sottraggono tempo di vita, che ci opprimono imponendoci lavori sempre più alienanti, che sono dimentichi del bene comune e pensano soltanto al profitto di pochi. Non vedo le masse imponenti che protestano; vedo tante piccole, pur importanti lotte, ma quasi tutte in articulo mortis, quando cioè un’attività produttiva è in grave, spesso irreversibile, crisi (reale o creata dai padron che sia). La scuola non si ribella – eppure ne avrebbe il potenziale. Non vedo il legame tra studenti e lavoratori della scuola, che sarebbe importantissimo e che potrebbe innescare un più vasto movimento di protesta sociale. Non vedo la lotta per una vita più umana. Ma vedo, però, tante persone che cercano un collante, un filo che le tenga unite e, pur non trovandolo, non perdono la speranza. A questa moltitudine dispersa bisogna rivolgersi – ne facciamo parte. Gli apparati politico-sindacali mostrano la corda, divorati dal dirigismo e dalla necessità (fasulla?) di tenere in piedi “l’organizzazione”. Abbiamo il dovere di non accettare l’esistente: la logica del profitto e dello sfruttamento degli esseri umani, dei viventi e della natura non deve prevalere. Agli educatori è affidato anche questo importante compito: far comprendere alle nuove generazioni che la realtà così com’è è difettiva e che l’umanità può cambiare in meglio. Accendere questo desiderio in animi giovani è quanto di più importante un educatore possa fare. E non si può chiamare educatore chi accetta l’ingiustizia con indifferenza.