Crisi industriali: basta regali agli speculatori! Rivendichiamo NAZIONALIZZAZIONI SENZA INDENNIZZO E SOTTO IL CONTROLLO DEI LAVORATORI

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Sono circa 150 i tavoli di crisi aperti al Ministero dello sviluppo economico. Alcune di queste crisi, come nel caso dell’Ilva (ArcelorMittal) e di Alitalia, vanno avanti da anni, senza che si prospettino soluzioni buone per i lavoratori. Tutte le ipotesi avanzate in questi anni dai governi di ogni colore prevedono centinaia o migliaia di licenziamenti, con peggioramento delle condizioni di lavoro e salariali per i dipendenti. Il 20 novembre scorso l’attuale ministro dello Sviluppo economico ha illustrato alla Camera dei deputati lo stato dell’arte: le vertenze ufficialmente aperte sono 149 (a cui si sono aggiunte successivamente le crisi di Unicredit, Banca popolare di Bari e Berloni cucine).

Il quadro non è cambiato rispetto agli anni passati. Cambiano i governi ma le crisi industriali non accennano a risolversi: erano 144 nel 2018, 165 nel 2017, 148 nel 2016, 151 nel 2015 e 160 nel 2014. Di questi tavoli di crisi, ben 102 (pari al 68,5 per cento) sono attivi da più di tre anni (alcuni sono aperti da più di sette anni). Il maggior numero di tavoli riguarda aziende con sedi o unità produttive in Lombardia (13,4% del totale), seguono Abruzzo (11 aziende), Campania (10), Piemonte, Lazio e Toscana (9). Tra le crisi in corso di cui si sta trattando al Ministero, molte riguardano aziende di grandi dimensioni: questo significa che sono in gioco i posti di lavoro (e le vite) di decine di migliaia di lavoratori: Ilva-ArcelorMittal (acciaio), Alitalia (trasporto aereo),Whirlpool (produzione di lavatrici), Bosch (produzione di pompe diesel), Mahle (componentistica auto), Mercatone Uno (grandi magazzini), Conad-Auchan (supermercati), Blutec di Termini Imerese (ex Fiat), Dema (aerostrutture), Unicredit e Banca polare di Bari, ecc.

Si sommano alle grandi crisi industriali, una miriade di crisi di medie e piccole aziende, spesso di indotto, con decine di migliaia di altri posti di lavoro a rischio.

Privatizzazioni – Esternalizzazioni – Delocalizzazioni

Nessuna delle centinaia di crisi industriali dell’ultimo decennio ha trovato una soluzione dignitosa e duratura per i lavoratori. Le soluzioni sono state invece molto vantaggiose per i proprietari delle aziende, cioè per i capitalisti. Molte aziende di interesse pubblico sono state svendute a multinazionali e grandi poteri finanziari, inoltre la stragrande maggioranza delle industrie che hanno chiuso gli stabilimenti in Italia hanno trasferito la produzione all’estero (o comunque investito negli stabilimenti che già possedevano in altri Paesi) incrementando notevolmente i loro profitti.

Alcune vicende sono particolarmente emblematiche. In Ilva lo Stato ha svenduto ai Riva il più grande polo siderurgico d’Europa, quello di Italsider. I Riva negli anni hanno pensato solo al guadagno, senza investimenti sulle tecnologie necessarie per adeguare gli impianti agli standard ambientali che la ricerca ha evidenziato come necessari. Così, dopo che Ilva ha avvelenato territorio e cittadini e dopo la fuga dei Riva, lo Stato è stato costretto a reintervenire consegnando lo stabilimento (in seguito a un periodo di amministrazione straordinaria) alla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal, che ha a sua volta spremuto Ilva il più possibile (anche grazie all’avallo di 3 mila licenziamenti e al vergognoso scudo penale), per poi lasciare le ceneri del disastro nuovamente in mano allo Stato.

Il Governo ed Arcelor Mittal stanno trattando un nuovo vile accordo, mentre le persone e gli stessi operai continuano ad ammalarsi e a morire. Grave che molte organizzazioni sindacali si siano piegate al ricatto lavoro o salute scegliendo di sottovalutare i rischi per la vita delle persone pur di mantenere attiva la produzione, tra l’altro avallando migliaia di licenziamenti; situazione già vista nel polo industriale brindisino.

In Alitalia ci troviamo addirittura alla vigilia della terza vendita – o peggio ancora della privatizzazione 3.0 – nell’arco di 10 anni. Diversi studi ci hanno messo a conoscenza dello sperpero di soldi pubblici, pari a circa 8/9 miliardi, utilizzati dai vari governi di ogni di ogni colore per privatizzare la compagnia di bandiera socializzando le perdite dei vari padroni nei vari passaggi della (de)ristrutturazione. Denaro utilizzato anche come bancomat per licenziare migliaia di lavoratori attraverso gli ammortizzatori sociali: nel 2009 con i capitani coraggiosi furono licenziati 10 mila lavoratori, nel 2014 con gli emiri di Etihad furono licenziati 2 mila lavoratori, nel 2017 furono respinti ulteriori 1800 licenziamenti attraverso uno storico referendum; ora, in amministrazione straordinaria, il Governo la vorrebbe vendere di nuovo o a un consorzio capeggiato dall’americana Delta o dalla tedesca Lufthansa; in entrambi i casi si prevederebbero non meno di 3 mila esuberi. Tutto ciò è accaduto mentre politicanti e sindacalisti asserviti raccontavano ai lavoratori che il privato è bello ed efficiente a differenza del “carrozzone pubblico”. Quegli stessi lavoratori che hanno vissuto poi sulla propria pelle le barbarie della privatizzazione, tanto da prendere coscienza nel votare no al referendum del 2017 contro le indicazioni della maggioranza delle organizzazioni sindacali, del Governo e dei media, intraprendendo una lotta per la nazionalizzazione di Alitalia.

In Telecom si è operata la più grande privatizzazione italiana. Telecom era, da azienda pubblica, una tra le prime 5 società del settore al mondo, con un fatturato medio di 23 miliardi l’anno. Tutta la politica e i sindacati confederali furono nel 1997 a favore della privatizzazione, con l’escamotage della “public company”, ossia il mantenimento di una piccola quota azionaria in mano allo Stato che in verità non ha tutelato né sviluppo, né servizio, né livelli occupazionali. Dopo la privatizzazione si sono avvicendati alla guida del gruppo, con lauti guadagni, Roberto Colannino e i capitani coraggiosi, Tronchetti Provera, gli spagnoli di Telefonica, le banche nostrane, i francesi di Vivendi con i “super-manager” Cattaneo e Genish e infine L’Ad Gubitosi (già passato da Fiat/Fca, Rai, Merrill Lynch, Wind e Alitalia). Oggi si parla di un possibile ritorno alla gestione pubblica tramite Cassa Depositi e Prestiti che tuttavia è una banca a tutti gli effetti, controllata da fondazioni bancarie e inoltre si insiste su progetti di smembramento del gruppo in una miriade di sottosocietà. Un giro incredibile di interessi privati che ha fruttato miliardi ai capitalisti, calpestando gli interessi del paese e dei lavoratori che sono calati dai 120 mila del 1997 agli attuali 40 mila addetti.

Un altro caso è quello della ex Fiat di Termini Imerese (Pa). Lo stabilimento è stato rilevato nel 2015 da Blutec, che ha incassato ben 21 miliardi dallo Stato per rilanciare la produzione e, si diceva allora, conservare i posti di lavoro. In realtà, in questi anni solo un centinaio di metalmeccanici, sui 700 ex Fiat, è rientrato al lavoro da quando Blutec ha riaperto lo stabilimento. Inoltre, le aziende dell’indotto hanno chiuso, i dipendenti sono stati licenziati e sono rimasti senza sussidio (c’è persino un’indagine della magistratura in corso). E così oggi si è aperto un nuovo tavolo sulla crisi della Blutec di Termini Imerese: i lavoratori che rischiano di restare a casa sono 670, cui si aggiungono circa 300 dell’indotto.

In Bekaert, a Figline Valdarno, lo Stato ha agevolato per anni Pirelli nella costituzione di un polo industriale per la fabbricazione di steel cord per gomme. Dopo aver speculato il massimo possibile Pirelli non si è però posta problemi prima nel ridimensionare la produzione e poi nel liquidare l’azienda, cedendola alla multinazionale belga Bekaert, che a sua volta, dopo alcuni anni di sfruttamento del lavoro e del mercato, ha individuato localizzazioni più economiche all’estero (ossia località dove gli operai possono essere ancora più sfruttati), aprendo una procedura di licenziamento collettivo di oltre 300 lavoratori. Nonostante le promesse delle istituzioni, tra cui il Governo, l’unica soluzione trovata è ancora la cassa integrazione; di fatto il futuro della azienda è tutt’ora nelle mani di Bekaert che, senza prospettive industriali chiare, dimostra di voler prendere lavoratori e territorio per sfinimento per poi procedere alla liquidazione.

È anche emblematico il caso della crisi della ceramica del distretto di Sassuolo (MO): dopo aver chiuso o ridimensionato gli stabilimenti italiani e lasciato senza lavoro migliaia di operai, i magnati italiani della ceramica (Panaria Group, Ricchetti, Finfloor Group con Florim, Concorde, Iris ceramica Group, Emilceramica, Dado e Gambini Group, ecc)hanno letteralmente ricostruito negli Usa (“Ceramic Valley”) il distretto ceramico smantellato a Sassuolo. In particolare nel Tennessee, i capitalisti nostrani della ceramica hanno continuato a fare grossi affari potendo sfruttare un mercato più solido e usufruendo di sgravi fiscali, infrastrutture, terreni urbanizzati e funzionari gentilmente offerti dallo Stato, nonché di manodopera più precarizzata.

Un copione simile lo abbiamo visto riprodotto nella gran parte delle crisi industriali del nostro Paese: i capitalisti dichiarano lo stato di crisi, ricevono cospicui finanziamenti indiretti da parte dello Stato (nella forma di ammortizzatori sociali, ovverosia soldi pubblici che servono per aiutare l’azienda in crisi dispensandola dal pagamento degli stipendi o di una parte di essi); chiudono lo stabilimento in Italia senza rimetterci un quattrino e poi trasferiscono la produzione all’estero, là dove è più semplice fare affari… In questa storia, a rimetterci sono sempre e solo i lavoratori e le lavoratrici: dopo essere stati ingannati dai padroni e dai burocrati sindacali con la falsa promessa che si troverà un nuovo acquirente, una volta finita la cassa integrazione restano senza lavoro (e senza un reddito degno di questo nome). Se la passano decisamente meglio manager e dirigenti, che, in cambio della loro fedeltà ai padroni, ricevono invece buonuscite milionarie. Tutto ciò non solo con la complicità dello Stato borghese ma anche dei sindacati maggioritari, firmatari di esuberi e accordi a perdere, ormai piegati alle logiche del potere e integrali al sistema, tanto da essere presenti in varie forme nei consigli di amministrazione di molte grandi aziende del paese.

E se si trova un nuovo acquirente?

L’esperienza dimostra che anche quando, come sempre promettono i rappresentanti delle istituzioni e i burocrati sindacali, si riesce a trovare un “nuovo acquirente”, non è garantita nessuna certezza per il futuro delle lavoratrici e dei lavoratori.

È infatti chiaro che il “nuovo acquirente” sarà disposto a rilevare l’azienda solo se la cosa rappresenterà per lui un vantaggio economico. È per questo che, quasi sempre, i lavoratori vengono convinti da solerti burocrati sindacali ad accettare mobilità volontaria, trasferimenti, “qualche necessario licenziamento”, peggioramento delle condizioni di lavoro e dei turni, passaggio a un regime contrattuale più svantaggioso del precedente (vedi il Jobs Act); tuttavia spesso e volentieri, il nuovo acquirente (magari dopo aver anche incassato miliardi dallo Stato nella forma degli incentivi) di lì a poco cambia programma e decide a sua volta di aprire una nuova crisi.

Servono lotta unitaria e determinata e soluzioni nuove

È necessario rivendicare, nella lotta, la nazionalizzazione delle aziende in crisi: solo così potrà essere veramente garantito in maniera duratura il posto di lavoro a tutti.

Peraltro è necessario chiarirci su cosa intendiamo per nazionalizzare. Ci addentriamo dunque in un concetto non semplice ma oggi urgente da porre alla discussione. Di fatto siamo in un sistema capitalista, dove ogni aspetto della società e della vita umana è diretto e manipolato dalla forza del capitale e dalle oligarchie che lo controllano. Ciò significa che anche un’azienda pubblica all’interno di questo sistema dovrà attenersi a logiche e regole vincolate; tale realtà è palpabile soprattutto nel caso di aziende che devono fare utili, pensiamo a Ferrovie o Poste, aziende per ora a capitale pubblico dove tuttavia i sistemi di sfruttamento e repressione del personale sono ai massimi livelli.

Di fatto un’industria pubblica, in questa situazione, dovrebbe gestire la produzione all’interno del ciclo capitalista e sarebbe dunque costretta a confrontarsi con la concorrenza nei prezzi al dettaglio e nel costo del lavoro; inoltre dovrebbe rifarsi a regole anche extraterritoriali inerenti importazioni ed esportazioni (vedi trattati comunitari o trattati internazionali di commercio); infine, all’interno di cicli di produttivi sofisticati da posizioni dominanti come nel caso dell’acciaio, dovrebbe fare i conti con mercati bloccati e manipolati.

Persino i tentativi preziosi (che meritano il massimo sostegno) di autogestione di terre o di aziende, di cui abbiamo vari esempi nel Paese, non sfuggono oggi a tale dinamica sistemica e oppressiva.

Inutile girarci intorno: non può esistere nel sistema capitalista, tanto meno sotto il controllo dello stato borghese, giustizia per lavoratori e per i popoli dei territori dove le aziende operano.

È evidente che solo in un sistema economico, anche internazionale, diverso e ispirato a principi di eguaglianza, dove i lavoratori e i comitati popolari siano proprietari e gestori dei mezzi e del ciclo di produzione, in antitesi al mercato liberista che crea diseguaglianze e ingiustizie sociali, le masse popolari potranno essere libere dal cappio del profitto.

Ma come procedere nella situazione attuale nelle vertenze di crisi industriali e licenziamenti di massa?

Rivendichiamo la nazionalizzazione tramite esproprio, senza indennizzo e sotto il controllo operaio, di tutte le aziende in crisi e la costruzione di organismi di autogestione dei lavoratori che siano alla guida dei processi industriali e territoriali.

Nessun soldo dovrà essere dato ai capitalisti che si sono arricchiti per anni pagando salari da fame ai loro dipendenti. Di miliardi ne hanno accumulati fin troppi sulla testa di dipendenti e cittadini, ora basta! È scandaloso, come dimostrano le vicende Benetton-Autostrade e Ilva, che persino quando sono responsabili di decine di morti (come nel caso del ponte di Genova), i ricchi capitalisti rivendichino miliardi per cedere allo Stato la proprietà (persino quelle avute in concessione dallo Stato stesso).

Come Fronte di Lotta No Austerity invitiamo lavoratrici e lavoratori a diffidare delle false promesse su possibili “nuovi acquirenti”, che propongono di accettare esuberi e peggiori condizioni contrattuali, come sacrifici “necessari”. Riteniamo fondamentale che tutte le vertenze in corso si uniscano, con azioni di sciopero e di lotta coordinate, di modo da dimostrare ai capitalisti e ai Governi loro amici, che i lavoratori e le lavoratrici non accetteranno soluzioni al ribasso che implichino ancora ricchezze per pochi speculatori a discapito di intere comunità.

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