Un altro genere di informazione

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Lo scorso 8 settembre, dopo due settimane di ricerche, Massimo Sebastiani ha confessato l’omicidio di Elisa Pomarelli. Anche in questo caso i giornali e le televisioni hanno dimostrato, per l’ennesima volta, la loro inadeguatezza nell’affrontare il tema della violenza di genere, raccontando la vicenda in maniera semplicistica, usando un linguaggio intriso di stereotipi fuorvianti. La storia viene raccontata attraverso lo sguardo dell’omicida, descritto come un uomo dall’”animo semplice”, ossessionato dalla donna, incapace di gestire la frustrazione del suo rifiuto, oggi piangente e disperato, pentito della “stupidaggine” (…!) compiuta. Di lei ci viene detto ben poco, le foto pubblicate, prese dalla sua pagina Facebook, la mostrano quasi sempre in compagnia dell’assassino, come per avallare l’ipotesi che tra loro ci fosse un legame sentimentale. Del suo orientamento sessuale si parla tramite una perifrasi, come se non si potesse dire che era lesbica; il suo chiaro rifiuto di una relazione viene definito come una disparità di intenti, una specie di incomprensione tra i due. Il racconto sembra avere l’obiettivo di suscitare una sorta di empatia nei confronti dell’assassino, pur nella brutalità del gesto.

Inoltre, nessun direttore, all’interno delle redazioni o negli studi televisivi ha ritenuto che quel tipo di comunicazione fosse impubblicabile; segno, questo, di quanto sia ancora diffusissima la cultura patriarcale.

Nonostante le raccomandazioni contenute nel Manifesto di Venezia, che fornisce le indicazioni per un’informazione corretta e consapevole, la violenza sulle donne (stupro, molestie, femminicidio) viene ancora trattata in maniera incongrua e superficiale. Le descrizioni dell’aggressore diventano oggetto di cronaca solo quando si tratta di stranieri, in quel caso l’etnia viene strumentalizzata a fini politici, perché permette di spostare l’attenzione sulla diversità, anziché mettere in evidenza gli elementi sistemici della violenza.

Portare la narrazione sul piano del romanticismo, parlare di storie d’amore finite male, di gelosia, di raptus di follia, non fa altro che fornire una giustificazione all’aggressore, che viene sempre dipinto come un uomo molto innamorato, incapace di gestire la fine della relazione o il rifiuto della donna, che, in qualche modo, viene colpevolizzata per aver “illuso” il pover’uomo o per essersi messa avventatamente in una situazione di rischio o per non essere stata capace di sottrarsene. Spesso se ne sottolinea l’aspetto fisico, l’abbigliamento, anche attraverso foto, come a voler insinuare che “in fondo se l’è cercata…”. Chi si occupa di informazione non può ignorare come questo tipo di narrazione sia complice della violenza.

Ricondurre la violenza esclusivamente alla sfera sentimentale lascia intendere che il femminicidio possa essere l’epilogo tragico di una storia d’amore finita male, anziché l’atto finale di un’escalation di violenza che nasce e si sviluppa in una relazione basata sul dominio e sul possesso. I centri antiviolenza e i movimenti femministi cercano da anni di informare sulle dinamiche della violenza di genere, affinché le donne possano riconoscerla e denunciarla.

Questo tipo di giornalismo è inaccettabile, perché reitera un pensiero profondamente sessista e patriarcale, ed è pericoloso perché induce le donne che vivono situazioni di violenza a restare nel proprio isolamento: sono moltissimi, infatti, i casi in cui le donne non denunciano le violenze che subiscono per il timore di non essere credute.

Abbiamo bisogno di un altro genere di informazione, che sia in grado di raccontare la violenza come fatto strutturale, che si origina nella disparità di potere tra i generi, non come episodio isolato dovuto alla follia o alla depressione; che eviti la colpevolizzazione della vittima e la giustificazione dell’uomo violento. Anche l’utilizzo consapevole del linguaggio può aiutare a contrastare e prevenire la violenza di genere.

Donne in Lotta Roma